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CAPE TOWN 1

RICORDI ALL’OMBRA DEL TABLE MONTAIN

Ho vissuto in Sud Africa nel 1995, durante gli anni del liceo, e ho frequentato la Camps Bay High School di Città del Capo. Come è facile immaginare è stata un’esperienza eccezionale, avevo 18 anni, ero dalla parte opposta del mondo da solo e facevo esattamente quello che mi piaceva cioè giocare a rugby e vivere la vita di un liceale in un posto meraviglioso. Ho vissuto un ventaglio enorme di situazioni che mi hanno segnato per il resto della vita e ho stretto profondi legami che mi accompagnano ancor’oggi. Erano i primi anni post-Apartheid, il Sud Africa ribolliva e quell’anno ospitò i mondiali di rugby, sport nazionale e simbolo del potere Afrikaans, ma allo stesso tempo uno dei pochi spiragli di aggregazione tra razze.
Mandela in quell’occasione fece una delle sue magie: invece di ostracizzare lo sport dei suoi carcerieri, lo trasformò nel simbolo della Nazione Arcobaleno, coinvolgendo tutta la popolazione in quella che era stata un’esclusiva tradizione bianca.
E, come nelle migliori favole, il Sud Africa vinse la finale contro i rivali di sempre, la Nuova Zelanda. Nelson Mandela, in maglia verde e oro premiò la squadra vincitrice, ma allo stesso tempo premiò un’intera nazione che si ritrovava stretta intorno ad un sogno comune dopo anni oscuri.

I miei ricordi sono legati molto a queste esperienze e alle sensazioni che mi suscitavano viverle, ma, allo stesso tempo, ricordo con esattezza la natura ridondante ovunque. C’erano luoghi magici come Lion’s Head o la Table Mountain, la stessa Camps Bay era immersa in un immenso giardino, per non parlare della costa verso sud, territori del tipico Fynbos, fino ad Hermanus dove si potevano vedere le megatere saltare e giocare in mare dalla finestra del soggiorno.

Due, però, sono le immagini che porto più volentieri con me riguardo questo strapotere della natura: le piante che crescevano in Down Town, spontanee, spuntavano enormi da microscopici buchi nell’asfalto e si aggrappavano ai palazzi e alle strutture, quasi a volersi riprendere quello che gli spettava di diritto, era uno sfoggio di maestosa potenza e, forse con un po’ troppo romanticismo, l’ho sempre associate alla situazione contingente che stavo vivendo, qualcosa di primordiale che si attaccava alla modernità, ricordandole da dove veniva e che, se voleva progredire, dove tenere conto della sua presenza.

La seconda immagine è legata al mio arrivo a Cape Town. All’epoca non esisteva internet e non sapevo minimamente cosa aspettarmi. Avevo visto qualche foto del Sud Africa, conoscevo la storia, ma l’unica vera esperienza che avevo di quel territorio erano i documentari di David Attenborough. Lungo l’autostrada che collega l’aeroporto alla città sorgono infinite township e per me era la prima volta che vedevo qualcosa del genere: persone che vagavano a fianco dell’asfalto e capanne di lamiere a perdita d’occhio. Ricordo la naturalezza con cui le persone nella macchina parlavano del più e del meno mentre attraversavamo questa città surreale, senza minimamente percepire il mio sgomento. In questo girone infernale restai affascinato delle enormi piante di Calla in fioritura che crescevano nei canali di scolo a fianco della strada. Il verde intenso delle larghe foglie segnava una macchia netta di colore all’interno di un caos cronico e il fiore a calice, bianco e slanciato, era uno sguardo altero e distaccato su quell’inferno in terra, ma allo stesso tempo un segnale, la bellezza che può sbocciare ovunque, basta cercarla ed essa sarà a disposizione di chi vorrà coglierla.
Quando chiesi lumi ai miei accompagnatori riguardo quei fiori stupendi che crescevano in quel caos quasi irreale, una presenza che in un attimo mi era sembrata una splendida luce nel mezzo delle tenebre, la risposta fu fredda e scostante: “Non li conosci? Sono i fiori che si mettono in mano ai defunti nella bara”. Anche se quella risposta così netta e traumatica spense in un attimo l’argomento in quel momento, 30 anni dopo mi fornisce una bella storia ogni volta che propongo una Zantedeschia ad un cliente.